Io sono di legno, Giulia Carcasi

È l’alba di una domenica qualunque.Giulia aspetta, Mia non è ancora tornata dai suoi sabati senza freno. Sono madre e figlia divise da un precipizio di anni e segreti, apparentemente sicure delle proprie scelte: hanno applicato alle loro vite teoremi precisi e sembrano funzionare. Ma quando Giulia si ritrova a leggere il diario di Mia, l’ingranaggio si rompe. Bisogna tornare indietro. E Giulia lo fa. Torna ai ricordi di una giovinezza ferita: il perbenismo della sorella, la fragilità di una madre che non voleva guerre, l’amicizia con una suora peruviana curiosa dell’amore e dei balli e che di Dio non parlava mai. Torna ai primi passi da medico, tra corsie e sale operatorie, al matrimonio con un primario, alla lunga attesa di una maternità sofferta e desiderata. Più la storia di Giulia si snoda nel buio del passato, più affiorano misteri che chiedono di essere sciolti.
Ma per madre e figlia l’incontro può solo avvenire a costo di pagare il prezzo di una verità difficile, fuori da ogni finzione.“Penelope non riconosce Ulisse quando lo vede tornare. E io non riconosco te. Una madre non lo fa, dicono gli esperti. Non si leggono i diari, non ci s’infila nei pensieri dei figli. I ladri entrano dalla finestra. I ladri, non le madri. Una madre non lo fa, ripetono. Scusami, ma la tua bocca è chiusa, Mia. E come faccio a capirti se non ti scippo i pensieri dalla carta.Scusami, ma la tua porta è blindata, Mia. E come faccio a entrarti dentro se non passo dalla finestra. Una madre non lo fa, assicurano. Farò in fretta, un passo dopo che te ne sei andata, un passo prima che torni. Ti leggerò e mi scriverò. Una madre non lo fa, io sì.”

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Il legno sembra fermo, ma è sottoposto a pressioni interne che lentamente lo spaccano.
La ceramica si rompe, fa subito mostra dei suoi cocci rotti.
Il legno no, finché può nasconde, si lascia torturare ma non confessa.
Io sono di legno.

E mentre il cuore degli altri mi batte addosso, mi dimentico del mio, che è scarico di pile.

Ce la prendiamo col destino, che ci ha fatto nascere qua e non là, perché con qualcuno ce la dobbiamo prendere. Perché non c’è niente di peggio del pensiero che, partendo da presupposti diversi, le cose sarebbero andate ugualmente.

Ho imparato che i bagagli hanno un peso che influenza il passo.

La verità è bicolore. Non ci stanno tinte di mezzo, non ci stanno i compromessi del grigio, il carnevale del blu, del rosso e del giallo. L’ho imparato quando ho messo a stendere le parole nere sul foglio bianco e la verità le ha asciugate.

Per Luca la maturità non ha patente, non passa attraverso i libri, passa attraverso i sogni e il coraggio di credere aldilà di tutto.

Si dice che quando due persone si sono amate per davvero, la morte di una trascina l’altra.

Essere pioggia non è facile. Devi concederti solo alle terre che hanno bisogno di te, altrimenti allaghi.

Il cielo è carico di elettricità, piove acqua e luce. La città, previdente, si è coperta di ombrelli, sa che non un suo angolo si salverà. La pioggia è imparziale: bagna il palazzo di un duca e i quartieri del popolo. La pioggia bagna il ricco e il povero, il vecchio e il ragazzino, ci rende tutti ridicoli allo stesso modo, la pioggia non fa distinzioni, sono gli esseri umani che le fanno. Piove oggi, piove e non sembra smettere.

Ci sono poesie che andrebbero messe in tasca, per tirarle fuori quando servono. Ci sono poesie che andrebbero caricate come pistole, per premere il grilletto e ammazzare il dolore che, se rimane inspiegato, cresce.

Il destino non fa cenni: alza la mano e dà la risposta, non suggerisce. Le risposte le hai solo quando lui ha finito, sta andando a letto. Il destino, te ne accorgi che c’è quando guardi indietro, mai quando guardi avanti.

Io non sono capace di perdonare, penso che quando cominci a perdonare è difficile smettere, è un vizio che rischia di farti passare per fesso.

E in un attimo accorgersi che “forever” è solo una parola, e, come tutte le parole, dura poco: una passata di vernice.

Preferisco la teoria alla pratica, mi sembra che in teoria le cose escano meglio.

Non credo ai prìncipi e alle belle addormentate, ai vissero per sempre felici e contenti, credo alle persone che si sopportano, a quelli che ogni tanto si dicono “ti odio” e maledicono il giorno in cui si sono incontrati.

Scrivere è qualcosa di intimo, più intimo del sesso, quello lo si fa uno incastrato all’altro, si fa senza studiare il corpo che si ha di fronte, dentro. Scrivere è spogliarsi di fronte a qualcuno, lasciarsi spogliare così, nudi e in piedi, pieni di difetti di carne.

Ma vedi, nella storia di ogni persona c’è una diga. Da una parte, l’acqua che cresce e scalcia ed è energia. Oltre lo sbarramento, la terraferma. Tu di me sai la terraferma. E allora ti racconto l’acqua che non hai mai visto.

Non mi piacciono i nomi lunghi, sono stata educata all’economia delle parole. E non mi piacciono neanche i nomi latini, da portare a spasso come cagnolini di razza. Adoro i nomi da vagabondi, corti come un fischio, per chiamarsi in fretta e scappare dalla polizia; i nomi da pescatori, che sanno di argento azzurro, di polpastrelli seccati dal sale, di navi che inseguono pesci: oro blu che salta e vibra e non si lascia prendere.

Noi donne siamo così, c’illudiamo che tutto dipenda da noi, che bastava spostare una virgola per cambiare il destino.

Sorrideva poco perché non le riusciva bene, per sorridere bisogna essere allenati.

Se non ti aggrappi a qualcuno ti sembra di cascare.

Era uno di quei tipi giusti che ti fanno sentire sbagliata.

Parlava di illusioni tanto vere che sembrava impossibile non vivere e non morire per loro.

Se scelgo storie senza senso, già frantumate in partenza, non c’è rischio di assistere alla fine.

Era la pazzia del lupo, che prima aveva verso la preda e poi aveva perso anche le sue tracce. Si comincia cercando quella persona nelle altre persone, si finisce cercandola negli oggetti.

Sa che ho paura del mondo e allora vuole smontarlo come un tostapane, capire come funziona e darmi un libretto di istruzioni.

La gente quando sta male è vera come non mai.

Ci sono quelli che vorrebbero essere uccelli, per vedere cosa c’è al di sopra delle nuvole, per bere ossigeno puro. Io non sono nata uccello, sono nata grillo: ho volato a metà, sono stata un attimo in aria e l’attimo dopo a terra, mezzo salto e mezzo volo. Meglio così, non bisogna fare l’abitudine al cielo.

È buono l’odore di salsedine nell’aria, buono il vento che scompiglia i capelli, strattona i giacchetti. C’è solo una cosa che irrita nel profondo: il mare. Il mare è logorroico, non ce la fa proprio a stare zitto.

“Io penso che l’amore sia un sacrificio sociale. E tu puoi dirmi che non è vero, ma questo è quello che ho visto. Mi guardo intorno ed è pieno di gente divorziata, di storie d’amore franate e io come faccio a stare con una persona e a credere che non finirò anch’io tra quelle macerie?” “Io penso che un tuo bacio può valere le macerie in cui forse un giorno mi lascerai.”

Non siamo noi a stabilire le nostre traiettorie, sono i ricordi che tracciano i confini.

Il ladro insegnava al poliziotto che non era bene fare la spia.

Avrò paura di perderti e per questo ti odierò.

Mi manca come il sale nella pasta. Come il ghiaccio nel vino caldo. Mi manca come lo zucchero nel caffè. Ma non glielo dirò e non lo darò a vedere.

Voi non lo potete sapere, ma io sarò come quel divano di pelle: custodirò le impronte di chi è passato di qua, di chi mi ha fatto sentire utile nello sforzo, di chi si è poggiato sul mio corpo e lo ha reso felice e stanco.

È convinta che anche l’amore sia un movimento di lancette che battono tempi diversi: le storie di due persone si sovrappongono per poco, poi ognuno si riprende la sua storia e la sua strada.

Le cadute di cuore non sono cadute di superficie, sono di un’altra razza. Le ferite sulla pelle si rimarginano in fretta, l’epidermide si rinnova di continuo, contiene molte cellule staminali, sono cellule pronte a rimpiazzare quelle morte, sono le seconde schiere di un battaglione. Il guaio è che nel cuore di queste cellule miracolose non ce ne stanno. Ha una sola fila di soldati. E amen.

Una finestra che fischia è la voglia che abbiamo di una persona, di vederla scavalcare ed entrarci nella stanza. Le finestre siamo noi a chiuderle male, le lasciamo mezze aperte quando aspettiamo il ritorno di qualcuno.

Lo so che si dice “l’ho amato con tutto il cuore”, ma io l’ho amato anche con i reni e la milza e lo stomaco, l’ho amato come solo una folle ama.

Capita di sentirsi pezzi di ricambio utili per altre macchina e incapaci di una corsa propria.

Hai visto in me quello che neanche io ho visto.

Potrei pungermi con l’ago, potrebbero spararmi, mentre tu mi baci, potrebbero investirmi, ma da quelle ferite non uscirebbe una goccia. Mentre tu mi baci, io non posso morire, io non posso sentire il dolore di un taglio, qualunque disgrazia accada, mentre tu mi baci, io non posso soffrire. Perché tu mi asciughi il sangue.

Io “scordare” è un verbo che non conosco. Scordare è più crudele di dimenticare: chi è dimenticato viene tolto dalla mente, chi è scordato viene tolto dal cuore.